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JEWELS FOR A CARIBOU The Land of Nasty Toys

Ribéss 2008; digipack, 10 tracce audio, 47’; 10 euro

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Un pio ubriacone si lagna con due angeli che gli pisciano in testa al banco di un bar. Un amante rimasto a bocca asciutta invita quella che era la sua donna alla Casa del Taglialegna, dove ognuno trova un nuovo amore, no, un nuovo amante. Un altro, moribondo e autorecluso e solo col suo gatto, si arrovella sulla donna che ha perso, fuggita con l'amico e la sua Porsche. L'amico d'infanzia del pedofilo, invece, torna a incontrarlo dopo tanti anni, gli fa la ramanzina, sogna di scuoiarlo, rasoio alla mano, ma - cristosanto – quello muore per conto suo. Cose che non si possono dimenticare. Marchi indelebili. Nessun falò di campagna: semmai incendi interiori e smog metropolitano. Nessun deserto: semmai disillusa arsura del cuore. Tempeste di polvere? Sparatorie? Pittoresche storiacce da cronaca nera? Ma valà. Non trovi nè questi nè altri cliché da due soldi nell'immaginario così apparentemente western dei Jewels for a Caribou. Che finalmente compilano il loro primo album vero e proprio. The Land of Nasty Toys è uno di quei dischi che, come dicono gli addetti ai lavori, trasuda 'verità'. Dieci ballate e canzoni che spaziano dallo slow-folk al rock più trattenuto, compresso, che esplode a denti stretti. Coloriture mariachi e perfino mediorientali emergono di quando in quando a distorcere le coordinate di gusto e di senso: perchè gli States dei Jewels for a Caribou sono un'immensa provincia che deborda nel ricordo, nelle suggestioni accumulate nei secoli, arrostite nel rogo delle velleità. Suoni da un confine (sterminato) che sembra non aver mai avuto un suono proprio e quindi lo implora di volta in volta all'alt_folker del momento, non importa se credibile o meno secondo i parametri italiani: concetti provinciali (quelli sì) come la Credibilità svaporano a contatto con il Pathos, la Profondità, la Catarsi, e ci sono musicisti seminomadi della Bible Belt che giurano "wow, such a deep feeling, questi Jewels for a Caribou hanno testi un po' esotici ma checazzo, ad ascoltarli ti s’alza d’un palmo la cotenna". Folk senzatempo e un quartino di rock. Gli strumenti della tradizione americana ci sono tutti – armonica, banjo, mandolino, fiddle, sega, concertina – mancano solo i cucchiai. Su tutto grava una cappa di piombo che cava ogni voglia di fiesta. E se c'è un filo di elettrificazione non è in omaggio agli dei volubili del rock. Come se la chitarra di Chris Isaac, stanca di servire i decerebrati, abbia preferito prendersi un bagno nel fiume dei morti prima di finire nelle mani dell'anonimo Marcello, polistrumentista che già godeva di un bell'armamentario di attrezzi maledetti. Tutti quegli attrezzi eseguono il minimo indispensabile per rimestarti il ventre. E la voce di Alberto – altro Grand'Anonimo – ha tanto del velluto quanto della lana di vetro, come imbottitura per la desolata, portentosa insignificanza dell'umanità. Questo il succo del disco. Dieci gioielli puzzoni. Composti e pagani. Dieci giocattoli per niente carini.

www.myspace.com/jewelsforacaribou